Fare i manager nelle Unità Organizzative

Intervista a Carlo Ramponi – DG Associazione Opera Santa Maria della Pace di Celano (AQ)
Fare i manager nelle Unità Organizzative significa gestire le risorse, coordinare, motivare i colleghi e i collaboratori, sviluppare le professionalità proprie e di coloro di cui si ha responsabilità, focalizzare gli obiettivi durante l’anno e valutare la performance.
Carlo Ramponi è un affermato manager in ambito sanitario. Ha ricoperto nella sua vita professionale molteplici ruoli. All’inizio della carriera come medico professionista, poi il salto nel mondo manageriale grazie a un master in Business Administration presso l'Università Bocconi. Poi ricerca e formazione in SDA Bocconi, per approdare - dopo quasi un ventennio- alla Joint Commission International come responsabile dei programmi europei. Da qualche anno, è un affermato manager di strutture sanitarie private.
Gli abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda sul tema della managerialità, per capire cosa significhi fare i manager nelle UO, quali sono i problemi e quali gli obiettivi cui mirare.
I professionisti possono fare i manager nelle unità organizzative?
«Si certo! I professionisti nel loro “territorio” hanno specifiche responsabilità e devono renderne conto all’organizzazione. Non tutti hanno voglia di farlo, alcuni pensano che sia burocrazia, tempo inutilmente sprecato: ecco questi non dovrebbero proprio farlo, lasciare il passo ad altri.
Il primo modo per fare i manager è crederci! Come si fa ad assumere una responsabilità e non volerla svolgere? Questa è la grande responsabilità del top management (e della politica nel mondo pubblico) credere che un posto serva non per la funzione che ha, ma per il riconoscimento esterno».
Nella sua carriera ha visto il problema da molteplici punti di vista. Cosa insegna la sua esperienza?
«Quando facevo il formatore e il ricercatore in SDA Bocconi lavoravamo per aumentare le capacità manageriali dei medici. Lavoro profondo: modificare il modo di vivere il ruolo. Questo è anche oggi centrale: i “capi” delle unità operative hanno responsabilità cliniche ma soprattutto organizzative. Non è forma è sostanza!
Nella esperienza di JCI è evidente che la qualità dipende dai comportamenti e che i “capi” hanno un ruolo centrale. Tutti si lavano più le mani se i capi si lavano le mani! Evidenza semplice … L’esempio e la coerenza nei comportamenti dei capi sono fattori determinanti per la performance economica.
Ora, da manager di strutture private, posso confermare che se il management professionale non funziona i risultati non ci sono».
Sembra che la situazione oggi non sia così rosea. Come è possibile tendere verso questi obiettivi?
«No, la situazione non è rosea. Sembrano in tanti dimenticare che i bravi professionisti non nascono a caso e che la scuola dove più si impara è la realtà operativa. Sì, la formazione è importante (alcune cose i manager professionali devono conoscerle), ma ancora più importante è il ruolo del top management: deve pretendere performance organizzative, deve incentivare il buon funzionamento dell’organizzazione e deve essere drastico: se un buon professionista non ha orientamento al management deve essere cambiato!
Poi nel pubblico, le unità organizzative devono essere valutate non solo con obiettivi di breve periodo, ma anche sulla capacità di fare squadra, di generare innovazione, di sviluppare professionalità. Sì, i professionisti che lavorano nelle aziende pubbliche hanno molto da fare: non esagero quando affermo che la qualità del Ssn dipende più da loro che da qualsiasi azione politica.
Infine, un suggerimento a tutti i top manager: anche se il vostro orientamento è il breve periodo (il triennio) guardate più lontano e valorizzate le capacità organizzative presenti nella vostra organizzazione».