La formazione: un asset strategico per lo sviluppo manageriale e per il successo dell’azione organizzativa.

Intervista a Paolo Rotondi e Alessandra Saggin – esperti in Formazione Manageriale in Sanità e docenti di Leadership e Gestione dei Conflitti all’interno del Master in Management dei Servizi Sanitari e Socio Sanitari

 

I professionisti che ad un certo punto della loro carriera si trovano a dover svolgere ruoli manageriali, devono costruirsi un mix di competenze che risulta abbastanza problematico conciliare.

Abbiamo chiesto a Paolo Rotondi e Alessandra Saggin – esperti in Formazione Manageriale in Sanità e docenti di Leadership e Gestione dei Conflitti all’interno del Master in Management dei Servizi Sanitari e Socio Sanitari di parlarci delle competenze necessarie ai professionisti che scelgono di intraprendere un percorso manageriale all’interno delle organizzazioni sanitarie.

«In linea generale – afferma Paolo Rotondi - c'è una contraddizione strutturale fra l'attività clinica e quella gestionale, che potremmo riassumere nella questione della complessità/incertezza. L'attività clinica infatti GENERA complessità/incertezza, mentre l'attività manageriale GOVERNA la complessità/'incertezza».

 

Ma, quali competenze sono vincenti per i professionisti che fanno i manager?

«Le competenze professionali non servono, né basta il solo "buon senso": servono tutte le competenze utili a governare l'incertezza, in particolare quelle organizzative.

Sono competenze utili a cambiare l'azione organizzativa sul piano strutturale attraverso la conoscenza e l'utilizzo di strumenti legati alla struttura organizzativa: capacità di definire procedure efficaci, di disegnare ruoli (job profiles e medical previlegies), di utilizzare strumenti di integrazione (PDTA) e di programmazione. A questo andrebbe affiancata la competenza nel costruire una cultura favorevole nell'ambiente di lavoro.

Quando un professionista sceglie di ricoprire un ruolo manageriale - continua Alessandra Saggin – e quindi diventa responsabile dei risultati di altre persone, il più grande cambiamento che deve affrontare è riconoscere una maggiore dipendenza da chi lavora con lui perché “si facciano le cose da fare”: il passaggio dall’ «io» al «noi».

Per essere efficaci nel “far funzionare le cose agendo attraverso altre persone”, è importante sviluppare la competenza nel costruire gruppi e nel diventare leader del proprio gruppo.

Col termine leadership si indica una particolare modalità di utilizzare gli strumenti manageriali, caratterizzata dal dare un senso all’agire dei collaboratori (fornendo indicazioni precise su obiettivi e risultati attesi, favorendo la comprensione di come il lavoro di ciascuno sia collegato con quello degli altri), dal valorizzare i contributi di ciascuno e dal lavoro di costruzione di abitudini e valori comuni (che permettono l’autoregolazione delle persone)».

 

Come rendere quindi compatibili professione e gestione?

Per Paolo Rotondi, questa domanda richiede una risposta su due livelli:

«A) Sul piano personale si richiede al professionista, che possiede competenze professionali spesso in grado elevato, di far posto alle competenze manageriali, dedicando tempo e lavoro alla acquisizione di competenze gestionali e organizzative. Ciò non è facile anche perché il contesto non valorizza questo spostamento; inoltre non è facile rinunciare in parte a competenze solide e mature per esercitarsi in competenze nelle quali si è meno sicuri.

B) Sul piano istituzionale quindi occorre probabilmente un intervento che valorizzi diversamente i ruoli a medio alta competenza manageriale, differenziandoli più nettamente da quelli professionali, investendo risorse sia sulla formazione sia sulla remunerazione middle manager.»

«Quando il professionista - conclude Alessandra Saggin - comprende che ricoprendo un ruolo manageriale dovrà “far funzionare le cose agendo attraverso le altre persone”, potrà dedicare tempo alla professione se e quando sarà riuscito a costruire una rete di rapporti con e fra i collaboratori (gruppo di lavoro o una comunità professionale se la numerosità è elevata).

Inizialmente dovrà dedicare molto tempo alla comunicazione e al coinvolgimento dei collaboratori, frenandosi dall’agire direttamente, e al controllo della qualità del lavoro … e avrà poco tempo per la professione.

Ma quando sarà riuscito a costruire una realtà organizzata (cioè una comunità di persone responsabili che si prendono cura dei risultati del loro agire insieme e non un insieme di risorse umane che agiscono in modo separato) avrà la possibilità di dedicare anche metà del suo tempo di lavoro alla clinica e/o alla ricerca».

 

 

 

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